venerdì 15 aprile 2005

Caro Hillman: la recensione di Raoul Precht


Ci sono libri che cominciano a parlare al lettore già con la copertina, che può essere un’allusione, un ammicco, una spiegazione, o, come in questo caso, un primo contributo. Una lettera sotto forma di ritratto è infatti il modo scelto da Franco Battiato per partecipare a suo modo a un grande festeggiamento critico, unendosi ad altri 24 fra psicologi analitici e intellettuali di varie estrazioni e tendenze, tutti impegnati a fare il punto su quanto li accomuna ovvero, non di rado, li distanzia dall’insegnamento di James Hillman. Già discepolo di Jung a Zurigo, fondatore in seguito della psicologia archetipica – di discendenza junghiana, ma resasi ben presto autonoma nei suoi obiettivi e nel modo di procedere più ancora che nei postulati teorici -, Hillman sta al gioco con grande finezza e ironia, rispondendo con una grazia d’altri tempi a tutte le missive, anche a quelle più critiche, e avvalendosi di tutti gli strumenti della dialettica, comprese l’ironia, la diplomazia e non da ultimo una certa evasività.

D’altro canto, anziché ricevere dall’Italia il solito volume di studi “in omaggio di” che non si nega a nessuno, Hillman deve vedersela qui con un’operazione di ben altra portata e intelligenza. Gli viene chiesto di rispondere infatti a vere e proprie bordate di varia provenienza, le più insidiose delle quali non sono tanto le osservazioni di colleghi di rigorosa ortodossia freudiana come Silvia Vegetti Finzi, quanto quelle di taluni junghiani “classici”, che lo considerano poco meno che un traditore e ne denunciano l’ormai irrevocabile distanza dalla pratica clinica, cui Hillman preferirebbe elucubrazioni filosofiche scarsamente produttive. Ed è proprio con i contributi – per fare qualche nome – di Augusto Romano, Mario Trevi e Marco Innamorati che la temperatura sale, il discorso s’impenna e si fa di estremo interesse. Ben lungi da una sterile laudatio, il volume curato con equilibrio e sensibilità da Riccardo Mondo e Luigi Turinese si pone al centro di una riflessione fondamentale non solo e non tanto sul futuro della psicologia analitica, quanto sulle capacità di questa psicologia di “curare l’anima del mondo”, come vorrebbe Hillman. Avremmo quasi voglia di dire che il libro acquista toni e momenti di un “giallo” classico, nel quale il lettore una volta tanto conosce già il colpevole (lo stesso Hillman), ma vorrebbe riuscire a smascherarlo, a stabilire cioè se sia davvero solo un carismatico quanto innocuo esteta, un raffazzonatore di mitologie che dalle stesse trae le figure che di volta in volta fanno comodo al suo discorso critico – insomma un abile “bricoleur”, come lo definisce Romano -, o invece un geniale pensatore, le cui teorie e costruzioni, pur basate sostanzialmente su una raffinata reinterpretazione di Marsilio Ficino e del neoplatonismo attraverso Jung, risultano oggi non solo innovative, ma in grado di indicarci un sentiero, se non proprio una strada, per il futuro.

Se alla fine i toni amichevoli prevalgono malgrado tutto su quelli critici, l’immagine di Hillman per il lettore non specialista resta – com’è giusto che sia – tanto affascinante quanto controversa. I curatori sono stati ben attenti a non imporre la loro visione, preferendo rendere varie sfaccettature non solo dell’opera dello studioso stesso, ma altresì delle varie anime che compongono lo junghismo nostrano, e invitandoci quindi a un approfondimento. E non è forse proprio questo che un libro deve fare per giustificare la sua ragion d’essere?