venerdì 1 novembre 2002

L’eresia di James Hillman e il popolo degli hillmaniani.

Quelli che approvano un'opinione privata la chiamano opinione;ma quelli che la disapprovano la chiamano eresia”
Hobbes, Leviatano


Il 13 Ottobre 2001, grazie alla sensibilità del nostro Ordine Professionale Regionale, Catania ha ospitato il prof. James Hillman per la prima volta in Sicilia.




È già trascorso un anno da quella esperienza ma in contrasto con l’accelerata voracità che caratterizza il nostro collettivo riguardo la produzione e consunzione di eventi, ritengo il tempo trascorso appena sufficiente per la sedimentazione di un’esperienza che è stata di importanza non ordinaria per la nostra Comunità professionale.
Un’eco di commozione accompagna quel ricordo, per me che ho avuto l’onore di contribuire all’organizzazione dell’evento e di presentarlo, introducendo il prof. James Hillman alle numerosissime persone presenti nella sala del Monastero dei Benedettini della facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Catania.
In questo senso il mio intervento avrà, grazie all’amicizia che mi lega al dott. Hillman, il valore di un’affettuosa testimonianza.
Non entrerò quindi in considerazioni critiche sull’impianto generale della teoresi hillmaniana, tale compito richiede ben altri spazi di riflessione e di approfondimento sull’opera del nostro Autore che, per la sua complessità, determina sovente in commentatori superficiali lo scadere in ingenue apologie da una parte, o in altrettanto acritici, difensivi quanto affrettati idiosincratici ostracismi dall’altra.
Questa tendenza a determinare aspri conflitti e dibattiti accesi è d’altra parte caratteristica dei grandi pensatori, che dotati di pensiero realmente dirimente costellano in alcuni “giovanili sensi di schieramento”, che sono contrari allo spirito della ricerca.
Il prof. Hillman ha un fascino indubbiamente carismatico, inoltre l’originalità della sua arte retorica arricchita da un linguaggio che attinge alle inesauribili risorse della Tradizione, il gusto per una ricerca sempre interdisciplinare ed in particolare l’attenzione dell’ultimo ventennio alle problematiche di autoreferenzialità del mondo analitico lo hanno posto in maniera originale all’attenzione del più vasto pubblico.
In un suo famoso saggio del 1989 “Dal narcisismo alla finestra: curare il narcisismo della psicoanalisi”, James Hillman affronta le carenze attuali del mondo psicoanalitico, sintetizzabili in una scarsa attenzione dell’analista all’importanza che il “mondo esterno” (Anima Mundi) e la “società civile” (come Polis) hanno come eventi simbolici nel determinare l’individuo e il suo adattamento.
Nei fatti Egli, amplificando alcuni elementi della teoria di C. G. Jung, inaugura una psicologia del profondo dell’estroversione, dove, e cito l’autore, “_il profondo anziché concepirlo soltanto come interno al soggetto , poteva essere trovato anche nell’oggetto, nelle immagini che il mondo ci offre_.”
In particolare l’autore precisa il ruolo svolto dalla Bellezza, come percezione estetica del mondo, nella sua psicologia del profondo.
Scrive infatti in “Politica della bellezza”:


Siamo inconsci delle nostre risposte estetiche.

E anche se il compito della terapia resta essenzialmente quello che è stato per tutto il ventesimo secolo, e cioè il tentativo di risvegliare la coscienza, è invece cambiato il focus di questa coscienza risvegliata.

Adesso diventare coscienti significa non soltanto diventare coscienti dei nostri sentimenti e dei nostri ricordi, ma soprattutto risvegliare le nostre risposte personali al bello e al brutto.

Siamo diventati inconsci dell’ impatto nel mondo, le nostre anime come murate nei suoi confronti. 

Da quel momento la sua ricerca psicologica ha progressivamente popolato le strade, le piazze delle nostre città, anche vivificando la dignità dell’impegno politico.
In questo senso è possibile comprendere alcune provocazioni del nostro Hillman quando accusa gli psicoterapeuti di essere totalmente anestetizzati, di pretendere di curare, di sostenere o semplicemente indirizzare, senza una preventiva educazione estetica alla vita nelle sue forme.
Ricordo come, nel testo “L’anima del mondo e il pensiero del cuore”, accusi gli analisti d’essere molto attenti ai propri controtransfert sessuali ma incapaci di accorgersi che la loro poltrona è orrenda e la formaldeide vernicia lo spazio in cui operano.
Questi aspetti della ricerca dell’ultimo Hillman hanno determinato due dirette conseguenze: da una parte lo hanno avvicinato al mondo culturale contemporaneo e al grande pubblico, trasformandolo di fatto in unKulturkritiker; allo stesso tempo lo hanno esposto all’accusa dei settori più esoterici della cultura psicoanalitica che lo tacciano di populismo postmoderno, traditore nei fatti della matrice psiconalitica di cui è stato tra i maggiori assertori a livello internazionale.
Allo scrivente il problema pare mal posto e lo espliciterò con le seguenti considerazioni.
James Hillman è una prestigiosa personalità della cultura contemporanea, uno dei rari ed autentici talenti del mondo psicologico che travalica i confini della singola disciplina. 
A sottolineare il significato che il pensiero dell’autore riveste per la cultura contemporanea, l’Enciclopedia Treccani del Novecento ha dedicato alla sua Psicologia Archetipica una voce autonoma. E’ questo un rarissimo caso tra gli psicologi contemporanei. 
Ero ancora un giovane studente di psicologia quando incontrai alcuni suoi testi basilari: “Il mito dell’analisi”, “Re–Visione della psicologia”.
I miei interessi si orientavano già allora allo studio della psicoanalisi e della psicologia analitica e rimasi affascinato dall’indipendenza intellettuale dell’Autore, che, al di là di ogni facile e irriflessiva appartenenza fideistica di scuola, attaccava gli ismi di maniera, primo fra tutti quello del mito dell’analisi
Va d’altra parte precisato che quest’operazione veniva attuata non da un qualunque denigratore del mondo analitico ma da James Hillman, direttore dello Jung Institut di Zurigo e già diretto allievo di Carl Gustav Jung. 
Il 13 ottobre 2001 è stato interessante ed estremamente arricchente ritrovarsi ad ascoltarlo, insieme con amici e colleghi di diversi indirizzi teorici.
La tematica era invitante – Lo psicologo come protagonista e (vittima) dei processi di trasformazione culturale – e il Prof. Hillman era tra le persone più qualificate per affrontarla.
Alle 8,30 del mattino ogni posto era occupato e ben presto la sala era stracolma con parecchia gente che ascoltava pazientemente in piedi. 
Perché tanto interesse e partecipazione?
Era forse la sala del convegno affollata solamente da appassionati “hillmaniani”?
No, non credo, come non immagino che esistano gli hillmaniani. Suppongo che solo l’ingenuità intellettuale di alcuni, accoppiata ad una insufficiente lettura della sua opera, possa creare degli hillmaniani.
Agli inizi degli anni novanta la mia conoscenza dell’autore era ancora occasionale e, durante un seminario, qualcuno tra i partecipanti chiese se esistevano un gruppo, un’associazione o una scuola da lui fondata alla quale aderire.
Il prof. Hillman rispose quasi stizzito che non esisteva niente di tutto questo, che lui era semplicemente uno studioso aderente all’Associazione Internazionale di Psicologia Analitica. 
In effetti il nostro Autore non ha fondato né ha mai dato il suo imprimatur alla creazione di un qualsivoglia movimento che non fosse di condivisione intellettuale tra anime libere da legami istituzionali.
Il tempo e la maggiore conoscenza dell’autore mi hanno permesso di comprendere meglio il perché di quel suo atteggiamento di fastidio verso una pur lecita domanda e di articolare una mia ipotesi.
James Hillman è fondamentalmente un grande ereticodel mondo analitico e come tale segue il destino storico che caratterizza gli eretici.
L’affermazione di eresia non è casuale e richiama la negazione di alcuni dogmi portanti in seno ad un movimento. E’ il destino che caratterizzò Jung, per rimanere aderenti al discorso psicoanalitico, ma riguarda fondamentalmente il destino del pensare liberamente nei raggruppamenti umani. L’eretico non produce ex novo ma ipertrofizza una parte del discorso originario, che accetta come dotato di verità ma non come inconfutabile (dogma). L’eresia è una convinzione maturata individualmente, come attesta la sua etimologia (hàiresis=scelta); e l’eretico vuole essere un soggetto attivo della propria salvezza. Naturalmente, egli è visto come fumo negli occhi dai guardiani del soglio dell’ortodossia.
Letteralizzare Hillman, inventando degli hillmaniani che lo rendano una Sacra Scrittura alla quale attenersi, è un torto che non crediamo l’autore meriti. Egli aderendo perfettamente al principium individuationis teorizzato da Jung, che amava affermare “non esiste altro junghiano oltre me stesso”, in una sapiente ricerca tra adesione e distanza, non ha mai limitato la propria libertà intellettuale all’appartenenza all’ortodossia. Con il suo acume psicologico e con la maestria della sua penna ha osservato ogni metafora della tradizione psicoanalitica, in trasparenza, ed ha ridonato alla cultura psicologica immagini che tendevano ad isterilirsi. Obiettivo del nostro autore non è quindi quello di offrirci punti fermi che confermino teorie consolidate, bensì di erodere quei miti, quelle reificazioni concettuali con le quali molto spesso definiamo, operando, persone ed eventi. James Hillman non vuole donarci “certezze” come hanno fatto altri illustri predecessori, ma similmente allo stile incarnato nella Tradizione dalla mistica apofatica, egli ci parla dell’oggetto mostrandoci cosa esso non è
Interessante in tal senso potrebbe essere la rilettura che propone in “Variazioni su Edipo” della metafora principe della psicoanalisi.
Metodologicamente egli intende quindi restituire alla psicologia la possibilità di guardare in trasparenza pratica e teoria psicologica, consentendo di intravedere le fantasie anteriori a fatti considerati troppo spesso automaticamente come evidenti e reali.
Vorrei ricordare qui ancora Jung, primo grande eretico del mondo psicoanalitico. Con la pubblicazione, nel 1912, di “Wandlungen und Symbole der Libido”, egli sancisce il percorso di allontanamento dal Maestro Freud. Nella sua autobiografia egli racconta che due anni prima – a Vienna – si era verificato tra i due il seguente colloquio, rivelatore delle intenzioni di entrambi: “_Mio caro Jung, promettetemi di non abbandonare mai la teoria della sessualità […] dobbiamo farne un dogma, un incrollabile *baluardo*”. “Prima di tutto”_ – è il commento di Jung – _“furono le parole baluardo e dogma che mi allarmarono, perché un dogma, cioè un’incrollabile dichiarazione di fede, viene stabilito solo quando si ha lo scopo di soffocare i dubbi una volta per sempre […] Fu un colpo che inferse una ferita mortale alla nostra amicizia_”. 
Da quel momento, i due grandi studiosi della psicologia del profondo non si incontreranno più e ignoreranno le loro reciproche scoperte. Questo si è tacitamente perpetuato nel mondo odierno dove, a parte sporadici contatti, le due ortodossie procedono come due rette parallele, come fanno d’altronde la maggior parte delle ortodossie del mondo psicologico contemporaneo.
A questo proposito è interessante osservare come i programmi formativi previsti nelle diverse scuole di psicoterapia orientino l’allievo all’approfondimento di un modello teorico senza destinare sufficiente attenzione agli elementi di “saturazione” che ogni modello presenta.
La “saturazione” del proprio modello non viene approfondita in quanto scambiata come una “debolezza” della propria corporazione e resta celata dietro la fantasia onnipotente di modello “forte” totalmente autosufficiente.
Quanto detto non favorisce la strutturazione di uno spirito di pensiero libero e dubitante, che dovrebbe essere l’obiettivo formativo essenziale di uno psicoterapeuta, ma predispone semplicemente all’assunzione di dogmi di scuola o, come diremmo in termini più moderni, di assiomi che mal digeriti approfondiscono semplicemente un senso di appartenenza.
Sarebbe forse il caso di dedicare nei programmi formativi uno spazio maggiore agli eretici, ai battitori liberi della psicologia, che “indeboliscono” il proprio modello teorico di riferimento?
Due mesi fa, nel giardino pensile di un albergo di Firenze, alla luce di un tramonto primaverile, conversavo con James Hillman della calorosa accoglienza che i colleghi siciliani gli hanno riservato in quella giornata catanese e, tra gli altri argomenti, abbiamo ripreso il tema della formazione culturale dello psicoterapeuta. Quest’ultimo tema gli è molto caro ed ho con piacere ascoltato dalla voce di Hillman alcune delle tesi sviluppate nel suo “Cent’anni di psicoterapia e il mondo va sempre peggio”. Molto sinteticamente, in questo dialogo fiorentino egli sosteneva che lo psicoterapeuta ha smarrito la spinta “rivoluzionaria” che fu dei padri fondatori. La psicoterapia è diventata sempre più un grande business, troppo preoccupata dei risultati da dimostrare a discapito della ricerca di un percorso individuativo per le persone che si rivolgono ad essa. Lo psicoterapeuta si disinteressa eccessivamente di ciò che accade fuori della stanza di terapia, considerandola a torto un’isola separata da tutto il resto. Questo rischia di aggravare il narcisismo dei soggetti che li terapeuta vorrebbe aiutare e alimenta nei fatti lo sviluppo di una coscienza solipsistica che non si riconosce come appartenente al mondo. La psicoterapia rischia così di trasformarsi in una tecnica da acquisire e da applicare, senza una riflessione accurata sulle determinanti collettive del nostro ruolo professionale. Viene smarrito in tal modo il senso che accompagna il nostro agire professionale.
Queste sue riflessioni non mi hanno totalmente “catturato”, ma hanno certamente “eroso” qualche mia certezza. A mio avviso, al contrario è possibile, oltre che necessario, mantenere una tensione dialettica tra l’attività contestuale e intersoggettiva che ogni psicoterapia richiede e le più generali esigenze dell’_Anima Mundi_ alle quali Hillman ci richiama.
Spero di avere presto altre occasioni come in quella giornata, di ascoltare altri grandi studiosi della nostra disciplina, che ci insegnino comunque a considerare ciascun punto di vista psicologico come una verità parziale ma non contraddittoria – come insegnano le scienze della complessità – preparando il terreno alla pratica di un autentico politeismo psicologico, per usare un’espressione cara a James Hillman.
Per questi motivi, e contraddicendo quanto sopra sostenuto, auguro a tutti i colleghi di mantenersi nel metodo sufficientemente hillmaniani, quindi eretici, “irriverenti”, liberi pensatori, mai completamente dottrinali, che è l’unico modo per mantenere intensa la passione per la nostra complessa attività professionale.

di Riccardo Mondo

Giornale dell'Ordine degli Psicologi della Sicilia
anno V - n° 2 - Novembre 2002



lunedì 19 agosto 2002

TESTIMONIANZA DI RICCARDO MONDO SUL TEATRO DEL MOLO 2 DI GIOACCHINO PALUMBO





                             TESTIMONIANZA DI RICCARDO MONDO





Sono passati venticinque anni circa dal nostro primo incontro, e ne serbo ancora una traccia intensa nei significati e contemporaneamente densa per la qualità affettiva che ha caratterizzato in quegli anni la collaborazione con te e con il Teatro del Molo2. Questo è stata un’ instancabile fucina di formazione professionale, di una quantità insospettabile di individui che oggi si occupano dei campi professionali più svariati. 
Sicuramente il Teatro del Molo 2 ha avuto un ruolo essenziale nella mia fermentazione immaginativa.
Ricordo anche la nostra collaborazione in ambito psichiatrico, erano i primi anni novanta , e creammo , in tempi e modi  pioneristici  per il territorio, un laboratorio di espressione corporea nella Comunità La Grazia nel territorio di Caltagirone. Rivedo ancora  la gioia e la gratitudine di quegli individui, chiamati pazienti psichiatrici, che abituati all’immobilità e al noioso gironzolare nei corridoi, attendendo che le ore trascorressero, cominciarono a sperimentare l’energia contenuta nelle attività del  laboratorio del Teatro del Molo 2.  
Valga per tutti l'esempio di Paola di anni 26, giunta alla nostra osservazione circa un anno fa con la diagnosi di schizofrenia, che presentava notevoli episodi deliranti con tematiche persecutorie su sfondo sessuale. Paola evitava qualsiasi forma di contatto fisico sopratutto con gli uomini; a volte autolesionistica, si picchiava, si prendeva a schiaffi, si tirava i capelli, rifiutava spesso il cibo.
Oggi continua a presentare tali deliri ma con una minore frequenza, entra in contatto con l'operatore e piange durante questi scompensi psicotici e lo abbraccia per poi riprendere più rapidamente contatto con la realtà. Ha una maggiore cura del suo corpo e del suo abbigliamento, sono scomparsi gli episodi autolesionistici e a volte saluta l'operatore con un bacio affettuoso. Da qualche tempo sta anche affrontando con lo psicologo reali tematiche riguardanti la sessualità. Ciò che più colpisce l'osservatore è la sua aumentata  "presenza fisica " nelle relazioni. Sta anche accettando di partecipare al gruppo che pratica attività sportive cosa che prima veniva sistematicamente rifiutata. Ultimo elemento della nostra osservazione è quello relativo all'aspetto formativo dei nostri operatori : questi più attenti al codice corporeo sono visibilmente meno spaventati dal " contagio fisico " della malattia mentale, e quindi più capaci di ascoltare, di capire e di rispondere alle richieste d'aiuto, riducendo così nella comunicazione la distanza tra curanti e curati. 
Riccardo Mondo